martedì 29 novembre 2011

Dialogo del Sole e della Luna




Sole, sole, non ce la faccio più a vivere così. Corri, ho bisogno del tuo aiuto. A lungo ho resistito, ammirando la tua bellezza e sforzandomi in ogni modo di non tenere questo sentimento che provo e di cui mi vergogno. Ma adesso devo parlarti e condividere con te i miei pensieri
Che c'è Luna? Cosa ti addolora a tal punto da domandarmi di interrompere il mio lavoro quotidiano e di lasciare il giorno oscurarsi per venir a parlare con te? Dimmi, allora.”
Vedi, Sole, ormai molti anni son passati da quando io e te ce ne stavamo da soli in cima a Tutto, tenendoci compagnia giorno e notte, notte e giorno, nella nostra serenità rotonda e senza lancetta. Così siamo invecchiati insieme e abbiamo visto insieme nascere le altre stelle. Uguali io e te nelle nostra forma perfetta. Ma da quando da quassù ho visto scoppiare quella piccola bolla d'Universo, chiamata Terra, mi sono reso conto di una cosa. Ebbene, da allora ho visto che tu, sole, non puoi lasciare il cielo senza che tutti gli esseri viventi ne soffrano profondamente: la tua più piccola eclissi è causa di turbamento in ogni angolo della Terra: i pesci nei mari, gli uccelli sui rami, le rose nei giardini e tutti gli uomini, si dispererebbero se tu non tornassi a risplendere su di loro. Morirebbero se tu non ci fossi e un male grandissimo piomberebbe su tutta la Natura. Per questo, Sole, sono arrivata alla conclusione amara che io sono meno importante di te, agli occhi del mondo. Sole. Diversa e non uguale a te come a lungo ho creduto.
Cara Luna. Hai detto molte cose vere, ma ancora non sai qualcosa di molto importante e la tua saggezza fa qui difetto. Tanti segreti cela questo universo, molti dei quali ancora nascosti alla luce nostra e delle altre stelle, ma il tempo che ci ha cullato insieme fino a qui, mi ha aiutato a capire una parte di questi misteri.
Ogni essere vivente è stato creato per far parte di qualcosa. Ho sentito filosofi e pensatori parlare di questo legame, come appartenenza ad un gruppo, ad una categoria che serve a comprendere le sue parti ed i suoi pezzetti, dai più umili ai più nobili e rari. Questo avviene per la forma esteriore delle cose, la forma che le identifica e le racchiude tutte. Così Luna io e te, come tu ben sai, siamo uguali nella forma. Ma nei milioni di anni che ho passato a brillare, quassù, in cima a Tutto, come tu dici, ho appreso che non c'è solo questo e questa non è la cosa più importante. La verità più importante di tutte, infatti, è che ogni essere vivente è unico e speciale, perchè unica e speciale è la sua essenza.
Sai Luna quanti versi tu hai ispirato alle anime grandi, quanta dolcezza hai donato agli amanti, quanti spiriti hai fatto ritornare di notte e parlare a chi ha ancora bisogno di loro, quante confessioni hai raccolto e quanti nodi hai sciolto nei cuori. Tu Luna sei la custode dei sogni. Grazie a questi, Tu, fai vivere gli uomini. Grazie a questi, Tu Luna, fai alzare ogni mattina uomini e donne, affinchè realizzino quello che di bello è stato possibile nella notte. Li chiamano i grandi progetti e i grandi scopi.
Ecco che, allora, Luna, siamo diversi nella nostra essenza, che pur tuttavia è uguale per dignità e importanza nell'ordine supremo di tutte le cose. In un coro infinito di intime corrispondenze, ciascuna necessaria a far cantare l'altra, in una pura armonia di significati. Così Luna, non essere triste e non provare invidia nel tuo animo sensibile, perchè questo possiedi, Luna. Possiedi la bellezza dell'infinitamente possibile, e finchè quella biglia colorata continuerà a girare, non ci sarà essere vivente che potrà vivere facendo a meno di sognare”.

lunedì 28 novembre 2011

Sulle punte


Non bisognerebbe
cercare la perfezione nella vita
basterebbe
vivere con grazia

Scrivere



«La liberazione è quando si fa buio. Quando cessa il lavoro. Rimane il nostro lusso di poter scrivere nel buio. Possiamo scrivere a qualunque ora. Non siamo penalizzati da ordini, da orari, da capi, da armi, da multe, da poliziotti, da capi e ancora da capi. E da chi sta covando i fascismi di domani».

Marguerite Duras, “Scrivere


Ideologie, queste chimere



Penso che alcune ideologie inventate dall'uomo, in realtà, siano una caramellina per la gastrite dell'Invidia o una pillola per la colite della Gola. Ecco.

domenica 27 novembre 2011

Parola di gatto

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Pensiero felino:
Vai a capirli tu i due zampe.

A confronto

Continuo con un pò di prestigiose traduzioni del celebre Odi&Amo di Catullo: 



Odio e amo.
Come sia non so dire.
Ma tu mi vedi qui crocifisso
al mio odio e al mio amore.
(Guido Ceronetti)

Odio e amo:
fusse che chiedi:
perché lo faccio?
Nunn’o saccio
ma lo faccio
e mme sient’ nu straccio.
(Stefano Benni)

Un pò di latino non guasta mai


"Minister vetuli puer Falerni
inger mi calices amariores,
ut lex Postumiae iubet magistrae,
ebrioso acino ebrosioris.
At los quolubet hinc abite, lymphae,
vini pernicies, et ad severos
migrate: hic merus est Thyonianus."
"Versami vino via via più puro
ragazzo del Falerno: è lo statuto
datoci da Postumia, del convito
la Presidente, più gonfia di vino
che un acino di succo. E voi sparite
dove volete, lontano di qui,
pesti del vino, acque. Tra gli Astemi
esiliatevi. Qui è il figlio di Semele
nudo."

A bit of myself

subito dopo

Carissimo babbo natale

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Tutte queste luci
spengano un pò
di rabbia in giro

e pistole e fucili
sparino
raffiche di abbracci

lacrimogeni
di gioia esplodano
tutt'intorno

e oggi tuoni
la coscienza
(senza silenziatore)

sabato 26 novembre 2011

Firefly


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NON TUTTI SON NATI LUCCIOLE.
Conosco chi brilla di luce propria anche sotto il sole
e chi è come il Fosforo
che ruba la luce altrui per luccicare
un pò
nel buio.
(della serie, non basta incollare due ali su un bruco per fare una farfalla).


Think green


I buoni sentimenti sono sicuramente ecologici.
Io comincio con la speranza alla clorofilla.


Questione di galleggianti



QUESTIONE DI GALLEGGIANTI.
Non è vero che siamo tutti uguali.
Siamo diversamente animati.
C'è chi ha l'animo profondo
come un pozzo lungo fino
al cuore della terra
e
c'è chi ha l'animo profondo come una scodella
o come una pozzanghera...
(che poi, si sa, evapora al sole....)

Wislawa



La cipolla
La cipolla è un'altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
Fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.

In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d'inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.

Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell'una ecco sta l'altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un'eco in coro composta.

La cipolla, d'accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l'idiozia della perfezione.
(W.Szymborska)

Book-land

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LIBRO IN TUTTE LE LINGUE DEL MONDO.
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libro (spagnolo e italiano)
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Citazioni serali

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” Dunque, pare che alle anime viventi possano toccare due sorti: c’è chi nasce ape, e chi nasce rosa. Che fa lo sciame delle api, con la sua regina? Va, e ruba a tutte le rose un poco di miele, per portarselo nell’arnia, nelle sue stanzette. E la rosa? La rosa l’ha in se stessa, il proprio miele: miele di rose, il più adorato, il più prezioso! La cosa più dolce che innamora essa l’ha già in se stessa: non le serve cercarla altrove. Ma qualche volta sospirano di solitudine, questi esseri divini! Le rose ignoranti non capiscono i propri misteri.
E tu, Wilhelm? Secondo me, tu, Wilhelm mio, sei nato col destino più dolce e col destino più amaro: tu sei l’ape e sei la rosa. “

[E. Morante, L’isola di Arturo]

Bellessenza



corona

http://pinterest.com/search/pins/?q=corona


Chiedete al rospo che cosa sia la bellezza e vi risponderà che è la femmina del rospo.
(Voltaire, n.d.r. Voltaire deve aver visto Shrek)


Senza firma



Answers




no!

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AD-atti
per ogni occasione

Glass

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C'era una volta uno specchio, sì questa storia non vede protagonisti principesse imprigionate con la treccia Rapunzelstyle, cavalieri dall'armatura splendente a cavallo di unicorni alati parlanti e invisibili e chi più ne ha più ne metta, fate dei boschi azzurre rosa e verdi, o potenti maghi con mantello blu a stelle argentate e cappello in coordinato...ma un modesto, comunissimo specchio dalla cornice dorata, anzi, nichelata. Ebbene, questo specchio di nome Glass andava fiero dei suoi molteplici aspetti e ne faceva addirittura un vanto. Non passava giorno che Glass non si desse arie dei suoi numerosi volti: ora con la teiera (sì quella della Bella e La Bestia) quando veniva spostato in cucina, ora con l'abat jour (favola non pervenuta) quando era posto in salotto, ora con la borsa dell'acqua calda (vedi come sopra) quando veniva posato sul comò accanto al letto. In effetti una teiera, un'abat jour o una borsa dell'acqua calda restano pur sempre fedeli a loro stessi ed alle loro forme, ossia la forma di una teiera, la forma di un abat jour e quella di una borsa per l'acqua calda. Glass, invece,  che il suo cuore di vetro potesse riflettere di volta in volta e a seconda di coloro che lo impugnassero, il volto di una  ballerina leggiadra, il profilo autorevole e arcigno di un giudice, la maschera tragicomica di un attore, e anche  la forma di un pesce nell'acquario. Vantava anche antichissime origini di fabbricazione e di essere appartenuto addirittura ad un re: quindi si riteneva uno specchio di alto lignaggio. Ebbene, un giorno, proprio la vilipesa teiera (sì, vi ripeto, quella della Bella e La Bestia), la piccola abat jour e l'umile borsa dell'acqua calda, stanchi della superbia e della prepotenza  dello specchio, lo apostrofarono con queste parole: 'Specchio, specchio delle mie brame - prendendolo in giro (per questo incipit, furono in seguito querelati per plagio e pubblicità ingannevole) - ma qual'è il vero volto tuo che sta sotto tutte quelle facce vane?'.
Lo specchio, sentendosi fortemente offeso da quel coro insolente, rispose: 'Ve lo faccio vedere io quale nobile volto è il mio'. Con un balzo, andò a posizionarsi di fronte alla vetrinetta della grande sala proprio davanti al grande specchio al fine di osservare ed ammirare il suo viso, ma al posto di una gioia altezzosa dovette fare i conti con una desolante verità. Un lunghissimo numero periodico, come un pozzo di vetro, vide davanti a sè, non una ballerina, non un giudice, non un attore nè un pesce rosso, ed infine neppure un re.

...


Era giunto il momento. Il rintocco dell'orologio sanciva il giorno della partenza così come aveva scandito quello dell'arrivo. Quel vecchio pendolo era sempre stato il solo padrone di casa ed ora stava intimando lo sfratto al suo anziano inquilino. Gli oggetti intorno erano stati accuratamente rimessi in ordine. Nell'angolo, la morbida sedia a dondolo avrebbe cullato il nuovo ospite accanto al caminetto già acceso come segno di benvenuto. Il vecchio nella stanza ripassava con lo sguardo gli scatoloni accatastati al centro di quella che era stata un'ampia sala da ballo. Tutto era cominciato con una sinfonia di luci e di colori e con una danza di calici: una festa grandiosa. 'Sembra ieri', pensava tra sé e sé l'anziano. Raccolse da terra un vaso di fiori che teneva con sé e sentì di nuovo il profumo delle rose di maggio. Poi, si avvicinò alla finestra da cui era solito contemplare i tramonti, rossi come i coralli del mar dei Caraibi: ricordò il calore dell'estate. Un soffio di vento penetrò nella stanza ed una foglia di platano, leggiadra come una farfalla di primavera, fluttuò nell'aria andando a posarsi delicatamente sul bordo della finestra. Dagli scatoloni spuntava qualche fotografia: in una era ritratto un bambino su un cavallino di legno; in un'altra un ragazzo giocava su una spiaggia; in una il gatto Giove dormiva sul sofà accanto ad una cesta di vimini traboccante di noci e marroni. Richiuse gli scatoloni ed aprì la porta per andarsene, ma prima dette un ultimo sguardo dietro di sé e le labbra si incresparono in un lieve sorriso. Era sereno. Fiocchi di neve, in punta di leggerezza, iniziarono a ricamare l'aria. Da lontano si udivano canti di Natale intonati dai cori di strada. L'anziano chiuse la porta e scese qualche gradino, poi si arrestò. Aveva scordato di fare un'ultima cosa. Si volse verso il campanello di casa e rimosse la targhetta con il suo nome: nessuno avrebbe più portato quel nome, senza essere automaticamente considerato demodè. Si chiamava Duemilaundici.

L'abete dei cieli

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Tanti e tanti anni fa, anzi precisamente la notte del 25 dicembre di duemiladieci anni or sono, come saprete, a una decina di chilometri da Gerusalemme, in una località di nome Betlemme un 'piccolo Principe' decise di farci un grandissimo dono, nascendo in un'umile mangiatoia riscaldata da un bue ed un asinello per Volere del Signore e per mezzo della fede amorosa di Maria e di Giuseppe. Quella fredda notte pastori e contadini, donne, uomini, vecchi e bambini si recarono alla grotta per inchinarsi innanzi a Gesù bambino, poiché quello era il nome del nostro Piccolo Principe, mentre nel cielo un astro d'oro e d'argento chiamato Cometa annunziava a vicini e lontani l'Evento miracoloso che avrebbe eternamente redento il nostro Pianeta. Nelle atmosfere più alte gli angeli assistevano alla nascita del Principe e per celebrare la Festa Santissima decidevano di addobbare le sfere celesti e cioè le nuvole, il cielo e le stelle con un grandioso albero di mille luci e colori. Così gli angeli soavi volarono sulla terra e si misero a cercare l'albero adatto. Dopo lunghe ricerche, ecco che tra tutti gli alberi bellissimi che ricoprivano e ricoprono come una folta chioma il volto della Terra, trovarono quello che faceva al caso loro: l'abete del Nord. Quell'albero infatti con la sua forma di semplice triangolo isoscele ricordava perfettamente la trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ci vollero le forze di molti angeli per issarlo e portarlo nei cieli ma quando l'albero giunse a destinazione fu davvero meraviglioso nella sua semplice maestosità. Siccome però gli angeli desideravano rendere l'omaggio ancor più prezioso al loro Piccolo Grande Signore, decorarono l'albero con le virtù più nobili e luminose che il Bambin Gesù avrebbe trasmesso nel mondo. Lo adornarono così con la bontà, l'amore, la tolleranza, la misericordia, la pace, la fede, il perdono, l'amicizia, e tantissimi altri nobili sentimenti. Lo splendore dell'abete dei cieli era davvero capace di sfidare quello del sole, della luna e di tutte le stelle e pianeti messi insieme, ma gli angeli desideravano aggiungere un ulteriore regalo: fu così che apposero una specie di freccia argentata sulla punta, che noi chiamiamo puntale; questo dono gli angeli amorosi lo fecero anche per gli uomini, per ricordare ai loro cuori la Fonte di quelle virtù ed orientare i loro passi in direzione dei cieli.

In via delle Pene Amare, 6


'Oggi, 18 novembre 2003, in Medicina, io Addolorata De Vita in Mezzasalma, nelle mie piene facoltà di intendere e di volere dispongo che dopo la mia dipartita da questa triste vita terrena che tanto affanno mi ha cagionato, ma nondimeno animata dalla fede imperitura nella Nostra Santissima Vergine Maria Madre di Cristo che con la sua misericordiosa pietà mi ha regalato la mia unica ragione di vita, nomino questa medesima ragione di vita, vale a dire il mio figliuolo Pomponio Mezzasalma, erede universale di tutti i miei beni'. Il Notaio Dottore Dagoberto Abbondanzio dei Conti di Villacorrotta, Cavalier di Spazzapecunia iniziava così a recitare un lunghissimo elenco di quei beni che avevan reso la casa di Via delle Pene Amare, n. 6 un lugubre santuario e la prigione dell'ereditando Pomponio Mezzasalma soprannominato Pompafunebre e cioè, in ordine di importanza: il gatto Aramis di razza persiana normotipico a pelo rosso affetto da forma patologica di bulimia, da incontinenza e da attacchi di polluzioni urinarie notturne sulle ciabatte scamosciate di Pomponio Mezzasalma; faceva le veci di primo ministro in casa di Via delle Pene Amare, e questo gli era valso l'appellativo di Mazarino; collezione di teste di moro di Caltagirone, gentile regalo delle zie (zitelle) di Gela, originariamente acquistate come bomboniere per le nozze di Zia Dorotea, prima che la medesima venisse abbandonata sull'altare insieme al parroco Don Gaetano Golasecca (noto come Don Giggì) essendo la perpetua fuggita insieme allo sposo 'doroteo'; l'acquasantiera raffigurante la Madonna di Loreto su fogliame dorato nel gesto di schiacciare il serpente mezzo strozzato da un grosso pomo nelle fauci, circondata da angeli svolazzanti; l'abito vedovile di mamma Addolorata cucito con il completo di papà Ernesto Mezzasalma da lui indossato il triste giorno delle fallende celebrazioni nuziali di zia Dorotea; il legato a provvedere annualmente a versare l'umilissima somma di Euro 5.000,00 a favore del Convento delle Suorine Ancelle della Santa Carità ; infine la casa di Via delle Pene Amare, n. 6 posta in Medicina.
Finito di leggere, il Notaio Dottore Dagoberto Abbondanzio dei Conti di Villacorrotta, Cavalier di Spazzapecunia sventolò sotto il naso raffreddato di Pomponio Mezzasalma una notula del modestoimportoconsideratal'amiciziaconlacaramammaAddolorata di Euro 8.999,99 e tanti carissimi saluti e condoglianze!
Arrivato al Santuario di Via delle Pene Amare n. 6, Pomponio Mezzasalma non provò la benché minima emozione di tristezza perché non ne ebbe il tempo. Appena varcata la soglia di casa, si accorse che Mazarino era stato assalito da uno dei suoi abituali attacchi combinati di bulimia e poliuria con conseguente vomito peloso al gusto di omogeneizzato di manzo e croccantini di pesce per contorno, sulle ciabatte scamosciate che, a giudicar dall'odore, aveva prima diligentemente innaffiato con le sue acide esecrezioni color paglierino. Così ebbe il suo gran daffare quotidiano per ripulire il tutto. Ma fu mentre imprecava e malediceva quella creatura decrepita, dispettosa e malandata che gli venne in mente un'idea grandiosa.
Il giorno seguente precisamente il 23.12.2010 alla sede della B.C.E. (Banca di Credito-Estorsivo) in Piazza del Pizzo, n. 3 (al numero tre, perfetto come i crediti della B.C.E., recitava lo spot in tv), arrivò per la prima volta in 25 anni di marcatura di cartellino alle ore otto, 24 minuti e 46 secondi dell'orologio preistorico del trisnonno ormai Tutta-salma, arrivò un certificato medico a firma del Dott. Ingannamorte Archimede attestante che il Sig. Pomponio Mezzasalma, dipendente e contabile della B.C.E. era affetto da sindrome influenzale con presenza di piloerezione (pelle d'oca), pallore, brividi, pirica temperatura ascellare.
Quello fu solo l'inizio. Il giorno 14.01.2011 alla sede della B.C.E. arrivò per la seconda volta in 25 anni di marcatura di cartellino alle ore otto, 24 minuti e 46 secondi un certificato medico a firma del Dott. Ingannamorte Archimede attestante che il Sig. Pomponio Mezzasalma, dipendente e contabile della B.C.E. era affetto da forma morbosa caratterizzato da comedoni (punti neri), pustole dal liquido opalescente e giallastro, pirica temperatura sottolinguale.
Accaddero altri tre o quattro episodi di stampo analogo, ora causati da considerevole temperatura rettale e prurito diffuso, ora da elevata ipertermia esofagea e aerofagia a singhiozzo, con impennata acuta, ouverture e chiusura allegra ma non troppo, andante e continuata.
Alla fine, dopo 25 anni di marcatura di cartellino alle ore otto, 24 minuti e 46 secondi e rimarcature in uscita alle ore 19, 24 minuti e 26 secondi, per circa dieci ore di lavoro indefesso ed in solitaria del Sig. Pomponio Mezzasalma, numero di cartellino identificativo 09134, il Direttore della B.C.E. Esimio Dott. Ippolito degli Onesti decise di mandare il medico di guardia in Via delle Pene Amare, n. 6, piano primo, campanello De Vita-Mezzasalma.
La scena che si presentò aveva dell'incredibile: al centro della sala su un tavolo apparecchiato con tovaglia di lino, pizzi e merletti di Burano troneggiava un'alzatina in ceramica di Francia traboccante di bignè, crostate alla frutta, mousse di vanilla e cacao mentre in un servito d'argento fumava un tè aromatico ai frutti di bosco ed il latte era custodito in brocche di porcellana di Capodimente con scene di vita bucolica. Pareva la colazione di Maria Antonietta. E dietro tutto quel ben di Dio stava seduto il Sig. Pompefunebri con un sorriso da ebete che diceva: 'Finalmente! ho dovuto scomodare tutte le deformità e le pesti di questo mondo per poter avere qualcuno in questa catacomba con cui prendere questo tè, a parte i santi, gli angeli e le madonne alle pareti'. E l'ebete sorriso si convertì in una risata così fragorosa e raccapricciante che questa volta i brividi vennero al medico della ASL.
Nell'angolo della stanza, proprio sopra la collezione di teste di moro della zia Dorotea, uno statico invitato prendeva parte anche lui alla festa del Sig. Pomponio Mezzasalma dipendete e contabile della B.C.E. con 25 anni di onorata carriera in meraviglioso isolamento: un felino impagliato dal lungo pelo rossiccio.

Un giudice


Il Dott. Cesare Livio Dioguardi era senza dubbio il giudice più condannato del Tribunale di ____________ – Sezione Distaccata di _____________, ma collezionava un florilegio di vaiaprendertelointodel ed originalissimi accidenti, in tutte le giurisdizioni dello Stivale, dalle Alpi all'Etna, dal Tagliamento al Torto, tra le quali era stato rimbalzato nel corso dei 35 anni di onorevole e specchiata carriera di magistrato toga-munito. Da quando, infatti, aveva prestato giuramento, il Dott. Cesare Livio Dioguardi aveva ogni giorno puntualmente adempiuto a ciascuna di quelle solenni promesse, facendo mostra di sé come il giudice più onesto ed incorruttibile del Bel Paese. La sua irreprensibilità era tale che era subordinato solo alla LEGGE e non solo la osservava con il massimo ossequio, ma arrivava perfino ad applicarla articolo per articolo, comma dopo comma anche fosse stato un esagerato comma 345al quadrato.
Come se non bastasse, il Dott. Cesare Livio Dioguardi condannava i truffatori, mandava in carcere gli assassini, dava l'ergastolo ai Padrini e a tutta la loro famiglia, medico e avvocato compresi; quando, poi, c'erano le aggravanti, visto che non era un giudice spilorcio, applicava pure quelle. Persino coloro che a causa di qualche bicchiere di troppo investivano qualche pigro cialtrone mentre osava camminare in mezzo della strada con passeggino - con conseguente intralcio alla loro legittima andatura 180 Km/h su strada urbana - venivano condannati addirittura a titolo di omicidio doloso. Quando a giudicare era il Dott. Cesare Livio Dioguardi, non interveniva mai nessuna prescrizione a spedire alla Hawaii qualche delinquente incallito, o ad Atlantide qualche terrorista o bandito. Per questo e per il fatto che, come pochi altri, aveva avuto l'ardire di superare il concorso in magistratura senza l'umiltà di domandare un aiutino a qualche Santo giurisperito e con diritto di opzione sui nuovi candidati, il giudice Dott. Cesare Livio Dioguardi era soprannominato da tutti Dott. Catone Dio -ci- guardi, nel senso che colleghi e avvocati ricorrendo alle peggiori apotropaico toccatine, intrecci di dita da una mano e corna dall'altra, speravano sempre di non incontrarlo sul loro cammino, non solo professionale, ma neanche per i corridoi del Palazzo di Giustizia e neppure al bar del Tribunale per il tempo di un caffè (corretto, dalle sue sentenze e i suoi moralismi paleolotici).
Ma un giorno nell'Aula 4 del Tribunale di __________-Sezione distaccata di ______ accadde un evento così strabiliante, che occupò tutte le prime pagine dei quotidiani locali e nazionali. Anche il Palazzaccio a leggere la notizia si strofinò le colonnine per il godimento e sventolò le bandiere a festa.
La mattina del 7 aprile 2010 Sua Eccellenza Giudice Dott. Cesare Livio Dioguardi noto a tutti come Dott. Catone Dio-ci-guardi, fece il proprio ingresso nell'Aula 4 del Tribunale di ______ - Sezione di _______________, in mezzo ad un coro sommesso di gestacci su descritti di avvocati, avvocate, portaborse/praticanti. Invitando la platea a stare comoda, pronunciò solennemente le seguenti parole:
Sono venuto qui questa mattina, per comunicare le mie dimissioni e dare a tutti voi il mio ultimo saluto.” Tutto l'uditorio si guardò in faccia allibito, un'avvocatessa svenne addosso al Pubblico Ministero, il Cancelliere registrò un gridolino di giubilo sul nastro del registratore, persino la scritta 'la legge è uguale per tutti' cadde giù dalla cattedra.
Da quando ho giurato di servire la legge” proseguì “non ho fatto altro che tentare di amministrare l'umana giustizia nel miglior modo possibile, sperando ogni giorno di bonificare questo Paese dalle sabbie mobili dell'inganno e della criminalità. Ma da oggi basta. Non sarò più il Giudice Cesare Livio Dioguardi al servizio della legge, sarò semplicemente il Sig. Catone Dio-ci-guardi; non è forse così che mi avete sempre chiamato? Vi prometto che non giudicherò più chicchessia giacché in quasi 40 anni di sentenze devo dire di non aver visto nessuno più veloce di voi a giudicare. Pertanto, ho deciso -state tranquilli, per l'ultima volta- di lasciare a tutti voi questa fragile e nobile eredità” e proferendo queste ultime parole ripiegò accuratamente la toga nera con l'aculeo da calabrone. Poi, come se fosse stato tirato indietro da un filo invisibile, indietreggiò e con le pupille sbarrate e cieche come quelle di un indovino quando sputa qualche vaticinio, disse:
Dimenticavo di dirvi un'ultima cosa. Avete studiato su tutti quei codici, codicilli e libroni che i gradi di giudizio sono tre. Vi faccio una rivelazione: ce n'è un altro, anzi un primo e ultimo, senza appello, senza tangenti né passpartout. Vi do appuntamento là davanti, sì proprio al banco degli imputati, di fronte a quello scranno." Fece una pausa e accennò un sorriso impietoso :"Con tutti quanti.”

Nell'era del Block Inside


Block-inside è l'innovazione del secolo, rivoluzionerà il nostro modo di vivere e quello delle generazioni future!” ruggì l'Ing. Marsilio Vittoria, soprannominato The Machine per l'efficienza e la precisione con la quale riusciva a concludere ogni affare per conto della Tele-trick Media - Humans Communications, mettendo a segno ogni progetto con la velocità di un NatoMissile.
L'Ing. Marsilio Vittoria era un uomo sulla quarantina, alto e lungo come un palo della luce, con una folta chioma di capelli scuri che facevano assomigliare il suo cranio alla scatola di un televisore anni '70. I suoi occhietti neri scintillavano tutte le volte che gli balenava in mente qualche idea monetizzabile in milioni di Euro. Essendo un essere profondamente cinico e spregevole, amava passare sopra tutto e tutti come un carro armato pur di raggiungere i suoi piani. Ad impreziosire il suo C.V. intervenivano le seguenti vittorie: aveva licenziato circa 450 segretarie; fatto fuori 200 stagisti; scalato 150 società del Gruppo; messo sul lastrico circa 600 famiglie a seguito di una partita a Risiko; (forse partecipato a due spedizioni militari in Medio Oriente, raccontavano gli impiegati superstiti); sconfitto la peste, l'influenza suina, aviaria, bovina, asiatica e lappone; investito 11 gatti e 7 cani, tra cui un Terranova ed un Mastino Napoletano.
Applicando il softwer sul proprio telefonino” proseguì in preda ad un singhiozzo parossistico “e collegandolo alle trombe di Eustachio con una minicuffia, sarà possibile sondare in tempo reale lo stato d'animo del possessore, decodificare ogni trasmissione neurologica e azzerare completamente ogni manifestazione emozionale” e l'Ing. Vittoria agitò in aria vittoriosamente il Blockinsideaffare come un trofeo.
“Lo scettro del XXI secolo! Vi rendete contoooooooooooooooo????”
I partners della Tele-trick Media-Humans communications convocati al breafing per il lancio del nuovo prodotto, l'epico Block – inside, erano in sollucchero. I più beati, come al solito, erano i Giapponesi. Già pregustavano il sapore del trionfo. Il popolo giapponese, pensavano, sarebbe stato quello che avrebbe ottenuto maggior vantaggio dall'aggeggio sponsorizzato dall'Ing. Marsilio Vittoria. Avvantaggiati da Madre Natura per i loro caratteristici occhi a mandorla sarebbero divenuti i campioni dell'ermetismo, l'esempio di freddezza e inflessibilità, il popolo che avrebbe ottenuto, grazie all'assenza di sentimenti, il potere indiscusso su tutto il Pianeta.
Vi rendete conto che gli affetti e le emozioni rappresentano soltanto un vicolo cieco, un ostacolo per lo sviluppo dell'essere umano?”sentenziò l'Ing. Vittoria.
Da ora in poi non avrà più cittadinanza l'insicurezza, il dubbio, l'esitazione di fronte al rischio di nuove sfide professionali; Non ci sarà più posto per la paura di fronte al nemico o al partito avversario; scomparirà la timidezza nei rapporti uomo-donna, l'ansia da prestazione sarà un brutto ricordo; la squadra del cuore potrà vincere lo scudetto se tutti i Ronaldino in campo indosseranno il magico Block-Inside. Inoltre, non ci sarà più bisogno di certe zavorre sociali come psicologi, analisti, avvocati, preti, suore. Il target cui è rivolto il Block-Inside è praticamente universale ed i costi saranno abbattuti dal boom che questo piccolo gioiello produrrà in un batter di ciglia su tutti i mercati.”
Per dimostrare la bontà del marchingegno Ing. Marsilio Vittoria, soprannominato The Machine concluse la sua arringa con una solenne promessa: “E siccome io sono il padre e la madre di questo piccolo meraviglioso miracolo tecnologico, sarò io per primo a sperimentarne la potenza e lo farò facendomelo inserire come valvola cardiaca. Infatti il prototipo delle cuffiette è a batterie e utilizzabile ad intervalli di tempo, mentre io non intendo separarmi mai più dal mio nanotecnologico figliolo”.
Fu così fissato il giorno dell'intervento chirurgico che avrebbe impiantato il Block-inside nel petto dell'Ing. Marsilio Vittoria. Ovviamente la cavia non manifestava il benché minimo segno di tensione preoperatoria, ma era più panzer che mai.
Bisturì” ordinò solennemente il capo dell'equipe medica.
Ebbe inizio l'incisione.
“Tu-tum, tu-tum” segnava la macchina collegata all'altra Machine (cioè l'esangue Ing. Vittoria Marsilio), tracciando una linea verde fosforescente sul monitor guizzante come un bruco.
Garze” proseguì il capoequipe.
Infermiera, mi metta la Cavalcata delle Valchirie che mi concilia il tocco”.
Cominciarono le note della sabbah Wagneriana.
Ma ecco che al momento dell'arrivo di Brunilde, si udì un “Feeeeeeeeeeeeeeeeeermi tutttiiiiiiiiiiiii!!!! che mi venga un accidenti!!!non è possibile!!!!” il capoequipe diventò pallido come il lenzuolo che copriva l'Ing. Vittoria. Anche gli altri membri dell'equipe non riuscivano a credere a ciò che non vedevano.
Il capoequipe cominciò a cercare come un rabdomante in trance, o forse sarebbe meglio dire come un meccanico, all'interno della Machine. L'Ing. Vittoria venne ben presto rigirato da cima a fondo come un calzino, sfoderato e aperto come una zip.
Eppure il dispositivo segna il Tu-Tum”. Capoequipe, medici, paramedici ed infermiera alla consolle piombarono nel panico, come mosche impazzite contro un vetro. Intanto le valchirie continuarono a cavalcare.
Ma ecco che toccò ad un aiutante svelare l'arcano.
Dottore, dottore è l'orologio, ci siamo dimenticati di togliergli l'orologio!” gridò l'aiutante.
Il capoequipe, sconvolto, rivolse lo sguardo verso il polso sinistro dell'Ing. Marsilio Vittoria detto The Machine e un grosso Rolex Daytona in oro massiccio dirigeva tutta quell'orchestra di ferri: TU-TUM, TU-TUM.
Anche i dottori, come le 450 segretarie licenziate, i 200 stagisti, le 600 famiglie, gli 11 gatti e i 7 cani, tra cui il Terranova ed il Mastino Napoletano, dovettero arrendersi all'evidenza di quella mostruisità: l'Ing. Marsilio Vittoria detto The Machine, era nato senza il cuore.

A4

A4 era un semplice foglio di carta in un album da disegno. Quando lo acquistò, il grafico Monet del laboratorio di illustrazioni pubblicitarie di Rue Saint Denis, stava lavorando ad una campagna promozionale per il lancio di un profumo di una nota marca francese.
Il grafico prese tra una pila di fogli da disegno, proprio A4 e si mise subito a lavoro. Trascorsero solo alcuni minuti e dalla sua prodigiosa matita, come da un bozzolo, uscì una farfalla.
A4 si innamorò subito di lei. O, verosimilmente, così pensò il grafico Monet. Quella creatura era la cosa più bella che A4 avesse mai visto.
Ti prometto che uno di questi giorni mi travestirò da aeroplanino e ti porterò con me fuori di qui, io e te danzeremo sui fiori del giardino delle Tuileries e su tutti i fiori del mondo”. Così disse A4 a farfalla. O, forse, così sognò il grafico Monet. Ma si sa, i lepidotteri vivono un paio di giorni soltanto. E anche alla bella farfalla di A4 non toccò un destino diverso.
Dopo un pomeriggio chino su A4 a disegnare ogni singola venatura nelle ali di farfalla, al grafico giunse la stroncatura del Direttore dell'Agenzia: 'Un papillon: que la banalitè (una farfalla, che banalità)' tuonò.
Fu così che la delusione e la rabbia si impadronirono di Monet. In mezzo ad una batteria di pennarelli e matite, afferrò bruscamente un panetto biancastro che teneva sul tavolo da disegno e con un colpo di gomma cancellò le antenne, le ali, il corpicino di farfalla. Fine. Dell'amore di A4 non restavano che briciole di gomma e un'impronta appena percettibile tatuata sulle sue fibre di carta.
Il grafico prese il foglio e ne fece una pallottola deforme a misura del suo pugno. Ma quando l'ira fu sbollita, si pentì di quel gesto impietoso e stiracchiò A4, come per rianimarlo. Poi ne fece un aeroplanino che lanciò fuori dalla finestra, divertito.
A4 volò come un angelo. Il grafico seguì con lo sguardo quella fuga di fantasia. Per un attimo, gli parve di vedere un aeroplano di carta con le ali di una farfalla. Illusione ottica o, forse, magia. Pensò.


la terra delle rane


Pronti? Mulinello?
Vecchia volpe, che stai facendo? io? Sono qui che sto leggendo un libro. No il giornale mi ha stancato. Non se ne può più di tutta questa ciarda. Il nostro Paese? Una stalla. Come dice qualcun altro un Paese di bucatini. Nemmeno più un paese di pizza che adesso ci stanno gli Egiziani a farla al posto dei Napoletani. Almeno quelli che, la guerra, preferiscono farla con la mozzarella ed il pomodoro

Ogni giorno alle 18,00, arrivava la telefonata, puntuale, come se il telefono avesse il timer. La facevano a turno. Da una vita. Da quando si erano incontrati per la prima volta bambini sulle sponde del fiume a cacciare i ranocchi. Poi, i ranocchi erano diventati sfide a rimbalzo di sassi sul pelo dell'acqua che a quei tempi era ancora d'argento e poi gare di pesca: cavedani, trote, lucci. I lucci erano i più brutti con quelle bocche spalancate da drago, ma tirarli fuori era un'impresa e dopo esserci riusciti, con l'ernia che rischiava di spuntarti fuori da un rene come un alien, ci si sentiva sempre degli eroi e si tornava a casa più contenti. All'inizio della loro amicizia c'era stata un po' di diffidenza: normale, visto che si contendevano lo stessi fazzoletto di terra, la terra delle rane. Si erano
studiati a lungo guardandosi negli occhi. Poi, l'uno aveva constatato che sul fondo dello sguardo dell'altro non si trovavano alghe pericolose o mostri subacquei e quindi ci si poteva fidare. Da lì avevano stretto il loro patto silenzioso. Per tutta la vita.: Amici. Uno era Lenza, l'altro era Mulinello. Due parti dello stesso strumento e la passione per quei confessionali in riva al fiume. Già perchè si mettevano lì nascosti nel verde sacro della natura. Il fruscio del canneto era l'incantatore che li invitava a parlare, mentre preparavano la pastura per i pesci e attaccavano le lenze all'amo. Poi, il fiume raccoglieva i loro pensieri e le loro memorie e li portava via con sé e scendeva il silenzio mentre i pesci facevan le bolle e andavano incontro al loro destino.
Fu su quella sponda che Lenza rivelò all'amico che si era innamorato per la prima volta. Mara, era questo il suo nome.
Fu lì che Mulinello pianse ed il suo dolore finì nel fiume a dissetare i lucci, quando morì sua madre e Lenza era lì a consolarlo. Fu Lì che Lenza chiese a Mulinello di fargli da testimone al suo matrimonio con Mara. Fu sempre e solo lì che Mulinello raccontò di aver problemi a casa e più tardi di aver perso il lavoro .
E gli anni passarono anche da lì. Il fiume da argento divenne color fango, i canneti cominciarono a stonare come flauti spezzati, le rane emigrarono al sud o forse non c'erano mai state e le avevano sempre sognate. C'erano sempre meno trote e cavedani e i lucci erano diventati sempre più mostruosi e pesanti per essere pescati. E si dovevan pescar quattrini per andare avanti e far studiare i figli.
Ma la telefonata delle 18,00 arrivava precisa e puntuale e Lenza e Mulinello continuavano a raccontare come se il fiume fosse stato lì con loro. Magico. L'ombra dei canneti che sfarfallava sui muri di casa.
Ore 18,00. “Oggi mia figlia ha fatto l'ecografia. Si sa finalmente il sesso. Avrò una nipotina”.
Ore 18,00. “La Laurea di Giulio è stata come pescare la prima trota quando si era ragazzi. Ti ricordi che bestia?Poi siamo andati a festeggiare. Abbiamo mangiato delle robine buone. A proposito che ti prepara Mara stasera?”
Ore 18,00. “Non vorrai mica mancare? Si festeggia le nozze d'argento e te che sei stato il testimone devi esser con noi. "
Ore 18,00. “Oggi son stato all'ospedale a ritirare le analisi. Te lo dicevo, io. E' come credevo. Ricordati ciò che ti ho chiesto. Diglielo a lei che urla e strilla quando le dico che voglio finire lì. Voglio finir nel fiume. "
Ma che razza di …...! Lo sai che Giulio è dottore e conosce i migliori specialisti. Sarai tu a sotterarmi. Dai che questa primavera si torna al fiume.”
Quell'inverno Mulinello si ammalò.
Una sera di fine marzo alle 18.00 a casa di Lenza squillò il telefono.
Pronto?” domandò Lenza.
Non rispose nessuno dall'altro lato, ma Lenza riconobbe lo sciabordio dell'acqua e il fruscio di foglie nella terra delle rane.

Il tiglio


Puntualmente ogni mattina verso le 11,45 quando i dipendenti della filiale della Banca Popolare di Castel di Santo interrompevano i loro battibecchi agli sportelli e, nei dieci minuti di pausa loro concessa, si attaccavano al cellulare, riacquistando una qualche parvenza di utilità per il loro ego da spaventapasseri con l'impartire ordini a mogli, mariti, parenti e affini, il Dott. Ascanio Soldaini, posava delicatamente la penna stilografica con il fusto in celluloide blu cobalto, ricevuta in regalo da sua madre il giorno della sua promozione a direttore dell'Agenzia 8 della Banca Popolare di Castel di Santo, appoggiava entrambe le mani alla scrivania di ciliegio con l'alone lasciato dalla tazzina del tè proprio vicino all'angolo destro e, facendo una leggera pressione, si alzava dalla poltrona, lentamente; prendeva il soprabito beige con la fodera a quadri bordò e marroni dall'attaccapanni posto dietro la porta, ed usciva dalla sua stanza posta al piano primo dell'Agenzia 8 della Banca Popolare di Castel di Santo.
In silenzio scendeva le scale, lentamente, ad una ad una, ed attraversava il corridoio al piano terreno, dove dietro le loro arnie trasparenti in plexiglass i tre addetti agli sportelli si agitavano con la stessa ansia di una mosca contro un vetro.
Il Dottor Soldaini passava loro davanti ignorando quegli infelici congegni antropomorfi ed i trilli dei telefoni e dei telefax, leggero, leggero e sottile come la figurina di un cartamodello. Pareva che gli mancasse l'aria lì. Passo, passo sfilava fluttuando per il corridoio principale, entrava nella porta simile ad una capsula aerospaziale e ploc! finalmente era fuori. La capsula lo aveva espulso.
I dipendenti lo osservavano, annoiati da quel rituale visto e rivisto un po' come l'alfabeto sulla tastiera del pc. Le prime volte lo avevano guardato incuriositi mentre sgusciava via alla moviola in uno stato di sonnambulismo, fuori dai locali dell'ufficio, come se avesse suonato l'allarme antincendio, come misteriosamente trascinato da un filo trasparente.
Uscito dagli uffici, il Dott. Soldaini faceva pochi passi e si arrestava proprio sotto il grande tiglio che troneggiava di fronte allo sportello del bancomat. Stava lì, fermo, immobile il Dott. Soldaini e si perdeva nei suoi pensieri. E Stava, così, in quella posizione da manichino per dieci minuti con aria trasognata.
'Eccotelo, la' bofonchiò l'operatore dello sportello 1 e con l'orologio cominciò a prendere il tempo 'tra dieci minuti rientrerà con addosso quell'irritante aria soddisfatta e si rimetterà alla scrivania fino a stasera. Di che cosa sarà contento Dio solo lo sa, ma una di queste volte, giuro che provo a domandarglielo.'
'Se prendessi il suo stesso stipendio' proseguì a staffetta quello dello sportello 2 'avresti anche te quell'espressione. Ma quello non è sano: è tutto matto, ormai lo sanno anche i sassi'.
A queste parole dell'addetto allo sportello 2, quello dello sportello 3 annuì con il capo come per convincere anche quello dello sportello 1, che aveva un'aria un po' scettica.
'Se ne sta tutto il giorno con la testa china sulle sue scartoffie. Non conosce altro che il perimetro della sua scrivania' riprese quello dello sportello 2, mettendosi a contare rapidamente una fascetta di banconote e bagnandosi con la punta della lingua il dito indice ogni due secondi. Sembrava programmato per quell'operazione.
“Scordi il tè con il latte alle cinque” aggiunse il primo che aveva parlato.
“Già l'unica sua vera passione, subito dopo i dieci minuti di imbambolamento sotto quell'albero. Lo avete mai visto sorridere?”e ficcò gli occhi da perfido segugio in faccia a quello dello sportello 3 che fece di no con il capo a sottolineare l'ovvietà della risposta .
“Eccetto quando si mette sotto il tiglio' precisò quello dello sportello 1 “quando si mette sotto il tiglio, ha la stessa espressione di mio figlio davanti ad un vassoio di pasticcini.” e premuto il tasto verde, la fotocopiatrice riprese a funzionare e illuminò il volto giallognolo e inespressivo dell'addetto allo sportello 2, facendolo somigliare allo schermo triste di un pc.
“Mi verrebbe una voglia di buttarglielo giù quell'albero, giusto per fargli dispetto a quel salame. Ve lo immaginate? Una mattina esce e non trova più il suo alberello.” Rise cinicamente quello dello sportello 2, mentre quello dello sportello 3 gli fece eco con una risatina complice che gli mostrò dei dentini piccoli e appuntiti da gatto selvatico quando viene rinchiuso in un recinto.
Una mattina, uguale a tutte le altre mattine – ma anche le cose uguali prima o poi si stufano e un giorno o l'altro scappano dallo stampino e fanno le linguacce – verso le 11,55 il Dott. Soldaini rientrò dalla sua parentesi nel tempo sotto il grande tiglio negli uffici della Filiale n. 8 della Banca Popolare di Castel di Santo, mentre l'addetto allo sportello 2 contava meccanicamente fascette da 50 Euro e l'addetto allo sportello 1 era collegato alla fotocopiatrice accendendosi e spegnendosi in viso al passare ogni volta di ogni singola copia.
Il vecchio Dott. Soldaini avanzò verso i tre e portava in viso un'espressione diversa dal solito, come un sorriso dipinto sulla bocca che però restava triste e tesa. I tre operatori dello sportello se ne accorsero immediatamente e si avvicinarono gli uni agli altri come per riunire le forze, simili a tre moschettieri in rovina sul punto di abbandonare le loro spade spuntate, ossia banconote e carte che tenevano in mano.
Si fermò di fronte a loro e li osservò stancamente con aria sconsolata.
“Volete che la sfami la vostra curiosità crudele? Credete che mi ferisca più di quanto non lo faccia la tragedia che mi ossessiona?” li apostrofò con una nota malinconica nella voce.
“Mio caro Sig. Sereni” e guardò l'addetto allo sportello 2 “già, perchè lei ha un nome, sa? e non è il numero che ha di fronte allo sportello. O se lo è, forse, dimenticato? ma lei lo sa quanto mi costa questa prigione? La vita, mi costa. E non mi riferisco soltanto a queste stanzucce che ci risucchiano ogni giorno. Io esco da qui la sera ed entro nell'altra gabbia.”
Quello dello sportello 2 guardò in faccia quello dello sportello 3 che fece spallucce e lo fissò a sua volta con aria perplessa. Nessuno capiva quello che stava succedendo.
“A casa, con la mia Maria in quelle condizioni, che accanto al suo letto non vuole più nessuno, ma solo i suoi vasi di gerani ed il bricco del tè al latte per innaffiarli. Dice che il tè al latte fa bene, rende dolce la crescita dei suoi fiori. E li chiama per nome: Cappuccino, Marella, Fiordaliso. E a me non mi riconosce”.
Intanto i numeri 1,2,3 avevano smesso di ronzare e se ne stavano imbambolati nelle loro gabbie trasparenti freddi e immobili come grucce appese in fila e piccoli piccoli con la testa in mezzo alle spalle.
La bocca del Dott. Soldaini restava spalancata e non si fermava più. Vomitava tutto il suo dolore, la sua felicità perduta e capricciosa.
“ Quando ero piccino ogni primavera la mia famiglia era solita trascorrere un breve periodo nella casa di campagna dei nonni. Lì ho potuto assaggiare il sapore che ha la felicità. Sapete che sapore ha la felicità voi? Ognuno lo sente diverso. Il mio sa di una corsa per i vigneti di nonno Giuseppe, di salti tra le strisce di luce e d'ombra del sole a mezzogiorno con il profumo delle rose che stanno in cima ai filari nelle narici. E sapete come finivano quelle corse? Correvo, correvo e alla fine arrivavo in cima alla collina felice con un senso di libertà divina nel midollo che mi brulicava fin dentro l'anima. E finalmente cadevo, sfinito e felice all'ombra del tiglio. La mia felicità me la ritrovo oggi davanti agli occhi, ogni giorno e ogni giorno me la riprendo, così” e con la mano fece un gesto verso il tiglio fuori come per acciuffare l'aria “per dieci minuti”.

La ragazza di Santec


L'avevano soprannominata la ragazza dal vestito rosso. Sì perchè da quando era comparsa all'inizio dell'estate nel piccolo villaggio di Santec sulla costa nord orientale della Bretagna, era stata vista indossare da sempre quell'abito rosso. Era giunta in punta di piedi, ma il rosso del suo vestito era come uno schiaffo violento al volto monotono di quella cittadina i cui abitanti conoscevano solamente il blu del mare e del cielo ed il bianco delle case dei pescatori.
Nessuno conosceva il suo nome, né sapeva da dove venisse. Una volta il Dott. Baptiste Ambroise provò ad avvicinarla per domandarle qualcosa o darle semplicemente il benvenuto nella piccola comunità, ma guardandola in volto non seppe proferir verbo e fu preso da tale emozione che divenne rosso come l'abito della giovane. Avrà avuto all'incirca ventanni. Capelli castani lucidissimi raccolti in una morbida acconciatura che lasciava scoperto il collo bianco e immacolato. Il suo corpo flessuoso come un giunco esaltava l'eleganza della sua andatura. I suoi occhi, a quanto riferì il Dott. Ambroise erano color nocciola, ma non poteva esserne sicuro vista la rapidità con la quale era battuto in ritirata, vittima della soggezione che la ragazza gli aveva procurato. Non sapeva neppure lui spiegarsene il motivo.
Ogni giorno la ragazza sedeva sul molo nel suo abito leggero di seta, con il collo agganciato all'orientale. E passava tutto il giorno a fissare l'acqua del mare. Guardandola da lontano assomigliava ad un papavero tenace e solitario cresciuto su un molo anziché in un campo di spighe.
Niente turbava la sua immobilità divina. Nemmeno i ragazzini che ogni pomeriggio andavano a giocare a palla nei pressi del molo. Era soltanto lei ed il mare. Lei e quel punto del mare. Un flusso continuo e sacro.
I giorni passarono, i mesi ne fecero un sacco e li portaron via con sé. Blu, bianco, rosso. Ormai quel colore apparteneva a quel paese, era divenuto il suo stesso cuore gonfio di mistero.
Si racconta che sul finire del mese di agosto, quando giunsero i primi temporali ad annunziare la fine dell'estate, la ragazza dal vestito rosso fu vista starsene là in riva al molo, come ogni altro giorno, sotto quella tenda di pioggia continuando a fissare quel punto dell'acqua. Era talmente concentrata e racchiusa in sé che quasi schivava le gocce.
Un pomeriggio la palla di uno di quei ragazzini che giocavano lì vicino, andò a rotolare proprio accanto alla giovane.
Julienne, un ragazzino dai capelli rossicci, un viso tondo pieno di lentiggini, si avvicinò alla ragazza per riprendere la palla. Accadde quello che non era mai successo prima. Come risvegliata da un sonno remoto, fuggita alla sua trascendenza eterna, la fanciulla si girò e fissò il ragazzino per alcuni minuti. Più tardi, Julienne sarebbe andato in giro a dire che gli occhi della ragazza non erano nocciola, ma verdi ma di uno di quei verdi come non se ne vedono in terra, un verde diverso, profondo e liquido, in cui ci si può smarrire per sempre.
Successe che il giorno seguente la fanciulla non fu vista seduta al suo solito posto.
La notizia si diffuse rapidamente per la piccola cittadina come i cerchi concentrici attorno ad un sasso gettato nell'acqua. E allora tutti gli abitanti temendo di aver perso per sempre la fanciulla dal vestito rosso, accorsero al molo per vedere con i propri occhi quel che non c'era più ed era come se ci fosse sempre stato.
Arrivarono in cima al molo, come tante polene curiose. E guardarono. Guardarono ricalcando lo sguardo scomparso della ragazza dal vestito rosso. Il punto esatto che ogni giorno da tre mesi la ragazza fissava come per custodire un segreto. E la videro. In fondo al mare attorno ad un cuscino di alghe color smeraldo palpitava una stella di mare di un rosso sovrumano, lo stesso rosso che avvolgeva magicamente la ragazza di Santec.

 

Isabrutta


Isabella aveva un nome che tradiva. Appena nata, il papà e la mamma di fronte a quel visetto tondo e a quei due occhi verde mare e alla boccuccia rossa a forma di cuore, non avevano potuto far a meno di scegliere per lei un nome che ogni volta che fosse pronunciato raccontasse al mondo la sua grazia.

Ma Isabella di bello aveva solo la confezione. E il nome appunto. Bella, bella, uguale all'idea stessa di bellezza.

Ma fin dai primi anni Isabella rivelò una natura terribile. Quello che si credeva un fiordaliso sbocciato in casa Raineri, fu in realtà una gramigna velenosa. Ma i coniugi Raineri avevano desiderato tanto quella piccina da tenere in braccio e avevano aspettato talmente a lungo prima di poterla avere, che quando la piccola Isabella fece finalmente ingresso nelle loro vite, proprio quando ormai sembravano aver perduto ogni speranza, tutte le loro energie, ogni cura ed ogni loro gesto erano solo e soltanto per lei. Così, la piccola crebbe al centro delle mille attenzioni di mamma e papà Raineri, viziata ed accontentata in ogni più piccola e bizzarra richiesta che fosse uscita da quella bocca perfetta a cuoricino amoroso.

Non mi piace l'orsacchiotto con il pelo marrone, voglio una bambola di porcellana con le trecce bionde e il vestito di raso rosa” strillava, diventando rossa come un peperone e gonfiando le guance, a mamma e papà il giorno del suo sesto compleanno. Un'erinni avrebbe fatto meno impressione. I due poveri genitori, all'udire quelle urla strozzate, impallidivano, iniziavano a tremare ed immediatamente si precipitavano al negozio di giocattoli a cambiare l'orsacchiotto di peluche dalla pelliccia marrone con una magnifica bambola di porcellana, con le trecce bionde e un raffinato abitino di pizzo e raso rosa.

Ma il passatempo prediletto di Isabella era parlar male di qualunque essere umano (e animale) per sorte o per sfortuna le capitasse a tiro. Genitori, cugini, governante, amici, tutti dovevano passare al vaglio di quella taglia e cuci che teneva nascosta nella boccuccia amorosa a forma di cuore.

Lei era bella, ed il suo nome, che in definitiva era un attestato ufficiale di quella sua bellezza, le dava il diritto di sputar veleno su chicchessia.

Quindi, per lei era legittimo dipingere la cugina Vittoria come una zittella abbandonata sull'altare, destinata a vivere in esilio dalla vita e dall'amore, circondata dalle sue tovaglie e dai centrini ricamati a mano, e in compagnia dei suoi 'quattro' gatti (di cui uno zoppo e cieco da un occhio); e ancora, raccontare come Norah, la vicina di casa che, finalmente dopo anni passati a piangere la morte del marito, si era potuta rifare una vita accanto all'Ing. Acciai, fosse solo un'egoista a caccia di patrimoni che “si era fidanzata per soldi con quel salame di un prete smesso dell'ingegnere”, il quale da anni viveva da solo con l'anziana madre “perché nessuno se l'era preso, da quanto era citrullo e brutto” (testuali parole della signorina Isabella).

Anche Don Raffaele, il sacerdote che l'aveva battezzata e che l'aveva definita come l'angelo colore di peonia di Villa Raineri, una vera benedizione scesa dal cielo per quella famiglia, per Isabella, era un collezionista e fruitore vivace (anche prima di salir sull'altare) di moscati, brunelli, malvasie e vin 'santi' di ogni genere e vitigno, e che i suoi sermoni della domenica fossero i più brutti e sgrammaticati che si fossero mai sentiti.

Ma la sua boccuccia color rubino restava sempre un cuore incantevole, le sue labbra due onde perfette colorate di tramonto.

I giorni passavano e quella bocca bocciava, condannava, puniva, ribattezzava in negativo tutto quello che non era alla sua altezza. E finora non aveva trovato niente che lo fosse. Era come una bellissima mela, con il verme dentro.

Un giorno, però, accadde un evento misterioso.

Era una tiepida mattina di maggio, quando Isabella aprì gli occhioni verde mare dopo un lungo sonno ristoratore tra le sue lenzuola di seta ricamate dalla cugina Vittoria durante i mesi invernali mentre le fusa dei gatti riscaldavano la sua malinconia ed le sue giornate di rimpianto.

Pigramente il corpo aggraziato di Isabella si rigirò tra quelle lenzuola come un fuso. Il fuso che nelle favole avvelena la principessa del castello.

Un raggio di sole entrò delicatamente a carezzare i capelli color marron glacè di Isabella che brillarono preziosi, mentre un passerotto volteggiando andò a posarsi sul bordo della sua finestra, cinguettando vivacemente.

All'udire le note di quel canto, un'ombra di sdegno si dipinse sul viso della ragazza, seccata da quel primo suono del mattino che non fosse la sua stessa voce. Di scatto fece leva sui gomiti e si mise seduta sul letto fissando in cagnesco l'uccellino che continuava a darle il suo buon giorno.

Che insolenza! Chi l'ha invitata quella bestia fastidiosa?” pensò tra sé e sé Isabella. E così tese le corde vocali e tutti i muscoli della faccia per urlare sul becco del passerotto: “shhhhhhhhhhhhhh, viaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa, fuoriiiiiiiiiiiiiiiiii”.

Ma lo 'shhhhhhhhh' non uscì. E neppure il 'viaaaaaaaaaaaaaaaaaa' e nemmeno il 'fuoriiiiiiiiiiiiiiiiiiiii'. Isabella ebbe come un fremito e fu allora che si accorse di non avere niente in bocca. Niente lingua, niente denti, né gengive. Anzi non c'era più nemmeno la bocca. La boccuccia a forma di cuore aveva cessato di battere. Silenzio. Finalmente. Solo la dolce melodia di un passerotto.

Odìsseo


Diceva Ulisse chi m'o ffafà
la strana idea che c'ho di libertà

na na na....


Sogni inzuppati


Puntare i sogni sulla ruota di Venezia
i sognatori invece sulla ruota di un biscotto;
andare al fondo della tazza
e leggerne i segreti


Smaling things


Non sorridiamo perché qualcosa di buono è successo, ma qualcosa di buono succederà perché sorridiamo.

(Detto giapponese)




Ho contato un pò di sorrisi 'atipici' oggi. A cominciare da quello nel caffè, poi mi sono imbattuta in quello di un 'pettine sdentato' (come descrive anche la mia amica Pescanoce), poi in quello di una nuvola, e nei baffi di un gatto grigio. Anche le parentesi () mi ricordano sorrisi in verticale. Stasera, forse, vedrò un sorriso nello spicchio di luna. O forse riconoscerò il sorriso dello Stregatto che danza tra le stelle?

Specchietto per ricordi


Pechè guardandoci indietro
dovremmo vedere
solo baci


Vendemmia e equazioni


Vendemmia in Chianti
di Cesare Marchesini, olio su tela, 70x50 cm



WINE&FOOD(+ART): living proof that simplicity is the secret to happiness

Gastrostagioni


Bye Bye ice cream
Hello schiacciata con l'uva!!!!
Ogni stagione ha anche la sua veste culinaria. E l'autunno è il mese della vendemmia per definizione: ergo schiacciata con l'uva a volontà. Amo questo dolce per la sua semplicità e perchè mi ricorda la mia nonna paterna che, però, si ostinava a fare l'impasto sempre un pò troppo duro. Praticamente era pane (raffermo) con uva!A dire la verità questa caratteristica era presente anche nella sua crostata alla marmellata di more. L'unico che si salvava era il ciambellone con i pinoli e la vaniglia. Oddio se sapesse che ho denigrato qui le sue torte, mi terrebbe il muso fino a primavera. Diceva che troppo burro fa male al colesterolo. Ma le torte non possono farsi al risparmio di calorie, sennò che torte sarebbero? o no?



Cakes&me

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Hard to resist!

Mamma

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"Le mamme sono come i bottoni, tengono unite tutte le cose."
***
Volevo scrivere un post su mia mamma. Ma non ne sono capace. Qui ogni parola è in difetto, nessuna degna di raccontarla, nessuna in grado di contenerla. Sarebbe come chiedere ad una lettera dell'alfabeto di riscaldare, o profumare di buono, o prosciugare una lacrima, o sollevarti da terra o farti sentire sicura nel mondo. Conoscete un'altra parola che sappia fare tutto questo, oltre a mamma?

Impronte




I nostri piedi son proprio belli
ma come sono le zampine dei gatti?

Similitudini



PESCE-GATTO

Gli opposti si attraggono
o
chi si somiglia si piglia
?

Tenere trappole

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E' troppa, a volte, la tenerezza. E tutti sappiamo l'effetto del 'troppo'. Ci si spalanca un pò più del necessario a chi ci fa intenerire e basta un attimo per restarci fregati. 'Talmente tenera che si taglia con un sorriso', l'ho letto da qualche parte e mi è rimasto appiccicato addosso come il mio brand personale. Non c'è che dire, spesso sono proprio così. Poi, ci si distrae un attimo, e si rischia il trappolone, sempre vestito in pompa magna e tutto cotonato e profumato (con il suo gemello siamese, nudista lui e tutto ossa- il disinganno); così succede che chi ti viene a suonare alla porta presentandosi come un povero rappresentante di offerte superconvenienti può essere, in realtà, un truffatore qualsiasi, o l'amico bisognoso, un opportunista pronto a 'nominarti' in stile Grande Fratello, appena non gli fai più comodo; e se sei proprio tenera, ma teneratenera, puoi imbatterti anche nel nonnino del carrello al supermercato, che in realtà è un saltatore criminale di file alla cassa (e per passarti avanti ti pesta pure i piedi con le ruote della carrozzella prima e del carrello poi). E' così. Il cuore, a volte, non deve far entrare certi occhi.

Mal-intesi



“Piove”
disse lei
“un uomo dal cappotto nero
passa per la via”
disse lei

Magritte però
non la sentiva
più tanto bene

(infatti lei lo disse soltanto
anni dopo la morte di lui)

Così non sentì più
le ultime tre parole
e capì soltanto
“piove un uomo dal cappotto nero”
e lo dipinse.

Erich Fried, Malinteso di due surrealisti

Di sabato mattina

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Sarà Poesia
se una sola parola
commuoverà
il mare
se una virgola
tra aggettivo e verbo
li trasformerà
in un bacio

venerdì 25 novembre 2011

Chissà dove siete....



Time

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Presto, che è tardi, presto che è tardi
(Bianconiglio, Alice nel Paese delle Meraviglie)


Deve esserci qualcosa che non funziona. Nel meccanismo dell'orologio intendo. E precisamente nell'arco di tempo che va dal momento del risveglio a quello di mettere (coraggiosamente) i piedi dal letto (recalcitranti e piagnucolanti, che ti gridano dal basso abbipietàdinoi). Perchè ogni volta che apro gli occhi e mi accorgo che mancano ancora 15/20 minuti di 'futuro' prima del 'presente - alzarsi' (e così mi rigiro beata dentro al mio morbido piumone) ecco che nel giro di 5 secondi, i 15/20 fanno già parte del passato. I 15/20 minuti concessi per fare qualche sogno in saldo con quel che resta dell'incoscenza notturna e visionaria, si trasformano in 5 odiosissimi secondi, 1,2,3,4,5. E scatta l'ora x. Ma com'è possibile? E in questo trucchetto son coinvolti tutti: dall'orologio da polso regalo della Laurea, alla sveglia, al cellulare. Tutti maledettamente d'accordo nel segnare l'ora sbagliata, nel far girare le lancette o i numerini del dispaly alla velocità della luce. Anzi, mi correggo di un neutrino. Potessi, ci metterei un autovelox.  Eppure 15/20 minuti di ceretta, son 15/20 minuti; 15/20 minuti di esame del sangue son 15/20 minuti; 15/20 minuti di fila alle Poste son 15/20 minuti. Ma è possibile? qualcuno di voi conosce l'antidoto?tanto lo so che domani ricominciano!

Nuovi arrivi



In arrivo
la cugina sarda dell'ICI
l'IMU


Venice


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Guardatela. Venezia è talmente vanitosa che sorge sul mare per specchiarsi ed essere due volte bella. E le acque le sorridono a forma di gondola.

inverno acceso

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Quanto amo
questa luce d'inverno

giovedì 24 novembre 2011

Roma e Athene


Ecco, eravamo precisamente così:



Penso alla mia bella Italia, il mio bel Paese, e provo una stretta al cuore. Ma come ti sei ridotta? e come ti sei ridotta te che porti il nome di una divinità, Europa. Dove hai messo la Tua anima? Penso ad Athene e penso a Roma, e a come son conciate, al contrappasso della loro fama e della gloria che le ha rese le colonne della storia.Genitrici sacre della nostra storia. Eppure ne son state riempite di pagine di libri e di trattati prestigiosi. Mi domando cosa ci sia rimasto davvero di loro, se non forse quelle belle parole stampate su carta. Ruderi e ricordi, mito scaduto in fiction o pretesto per una barzelletta sgangherata. Un tempo c'era la polis, c'era la res publica, c'era Fidia e Solone, c'era il De Amicitia e la filosofia, adesso non ci resta che l'indifferenza, travestita da interesse economico (o da Angela Merkel?), per quelle grandi conquiste e verità. Non ne abbiamo fatto buon uso e adesso facciamo i conti con un Paese che, perfino le mutande, ha in rosso e non in segno di buon auspicio come si fa per l'ultimo dell'anno. E senza vergogna, anche. Siamo fatti così. Annaspiamo in questa Europa goffa e fragile, che ci ha traditi tutti, dal primo all'ultimo e aspettiamo in questa 'apocalisse sospesa', come ho letto da qualche parte, sconfitti mentre andiamo alla deriva, guardando con rassegnazione l'orgoglio e la dignità che abbiamo lasciati sulla terra ferma,  all'ombra di una palma e con un cocktail in mano che ci dicono: "au revoir". Ecco, questo faccio, penso alla mia bella Italia, alla mia bella Europa, ma mi infastidiscono i titoli di giornale, l'upgrade ed il downgrade mi fanno venire il mal di mare, e gli alluvionati da Nord a Sud attentano al mio-miocardio. Poi ci si mettono le bustarelle finmeccaniche, le cattedre negate ai medici-eroi, i bisturi smarriti nelle pancie dei pazienti farciti. Forse, però una cura c'è a tutto questo; com'è che si dice? Canta che ti passa.
Cantami o Diva, del Pasokide Papandreou che fatali 'perdite'addusse agli Achei.


E ora siamo così


(Ap/Euler)